«Ho stretto la mano all’ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, a Temple Bar, nel cuore di Dublino. Era circondato dalle guardie del corpo, e quando mi ha visto si è diretto verso di me. Con tutta la sicurezza personale intorno, è venuto a stringermi la mano» racconta, con un sorriso ancora pieno di stupore, lo chef italiano Luca Rosati.
È il 29 settembre 2006 quando il quotidiano britannico Daily Mail lo immortala mentre stringe la mano all’ex presidente americano. Era l’anno della Ryder Cup al “K Club” di Straffan, nella contea di Kildare, e Clinton, in quei giorni, partecipava a un summit nella prestigiosa Farmleigh House, a Phoenix Park, insieme all’allora primo ministro irlandese Bertie Ahern.
Continua il viaggio del COMITES Irlanda all’interno della comunità italiana, alla scoperta di storie autentiche, volti e percorsi che raccontano il contributo prezioso degli italiani in Irlanda. Un racconto fatto di esperienze professionali, talento e passione, che testimonia la ricchezza di una presenza viva e radicata nel tessuto culturale e sociale del Paese.
Di Francesco Dominoni
DUBLINO – Nato a Terni nel 1978, Luca Rosati porta dentro di sé la passione per la cucina sin da bambino. A trasmettergliela è la madre, che lui definisce “una grande cuoca” e che influenza profondamente la sua scelta di frequentare la scuola alberghiera, dove alla teoria si affianca una solida formazione pratica. Nel 1997 ottiene la specializzazione di cuoco, un diploma che segna l’inizio di un percorso professionale inarrestabile.

Lavora in Sardegna, sulla Riviera Romagnola e in Corsica, affinando la tecnica e l’istinto. Poi attraversa l’oceano e vola negli Stati Uniti, in Colorado, precisamente a Vail, nella contea di Eagle, a circa 150 chilometri da Denver, nel cuore delle Rocky Mountains. Qui trova casa al ristorante italiano Campo dei Fiori, un locale raffinato frequentato da celebrità di Hollywood e amanti della vera cucina italiana.
Una carriera costruita con passione, disciplina e curiosità, che continua a raccontare la storia di un cuoco italiano capace di portare, ovunque vada, l’autenticità e l’anima della cucina italiana nel mondo.
Nel 2006 Luca Rosati compie uno stage formativo presso il celebre ristorante Patrick Guilbaud, in Upper Merrion Street a Dublino, un’istituzione dell’alta cucina irlandese, fondata nel 1981 e situata accanto al prestigioso Merrion Hotel. È qui che il giovane chef italiano affina la sua tecnica e si misura con gli standard più elevati della gastronomia francese contemporanea.
Negli anni successivi, Rosati consolida la sua esperienza lavorando in alcuni dei ristoranti più rinomati di Dublino: da Gigi, a Ranelagh, di Giorgio Casari, fino a Il Vicoletto, in Crow Street, nel cuore pulsante di Temple Bar, e al ristorante Bellagio nel quartiere residenziale di Terenure.
Diventa poi capo chef per quasi tre anni al ristorante Rosa Madre, una delle insegne più apprezzate del centro di Dublino, dove lascia il segno con la sua cucina elegante e di carattere.

Rientrato in Italia, apre la sua Osteria Marsilea sulle rive del lago di Piediluco, uno dei luoghi più suggestivi dell’Umbria, in provincia di Terni. Un locale stagionale dedicato alle specialità di pesce di lago, dove Rosati unisce tradizione e creatività in un ambiente raccolto e autentico.
Oggi, Luca Rosati è tornato a Dublino e lavora presso il prestigioso ristorante francese La Maison, al 15 di Castle Market (Dublin 2), un indirizzo storico che da oltre vent’anni rappresenta un punto di riferimento della cucina francese classica e contemporanea nella capitale irlandese.
Luca, dici spesso che la cucina italiana è talmente vasta che nemmeno noi italiani la conosciamo davvero. Cosa vuoi dire?
«È proprio così. La nostra cucina è talmente ricca e diversificata che, paradossalmente, non la conosciamo fino in fondo nemmeno noi che ci lavoriamo da una vita. Ogni paese, ogni borgo, custodisce la propria cultura gastronomica, un piatto che racconta una storia, una tradizione, un’identità. È un patrimonio immenso, che merita di essere riscoperto e valorizzato».
Eppure, all’estero si continua a identificare l’Italia con pochi piatti simbolo…
«Sì, purtroppo è così. All’estero, ma anche da noi, si finisce spesso per promuovere solo una manciata di ricette: la carbonara, l’amatriciana, la lasagna… come se l’Italia finisse lì. Ma la nostra cucina è molto di più: è un mosaico di sapori, saperi e tradizioni che cambiano da una vallata all’altra. Ogni territorio ha un’anima diversa, e questa è la sua vera forza».
Ti capita spesso di vedere piatti italiani reinterpretati o “rivisitati”. Che ne pensi?
«Sinceramente, mi dà fastidio. Capisco la voglia di innovare, ma c’è un confine da non superare. Quando un piatto viene stravolto, perde la sua identità. La cucina italiana non ha bisogno di essere reinventata, ha bisogno di essere rispettata. Ogni piatto nasce da un equilibrio preciso, costruito nel tempo. Alterarlo significa tradirlo».
Facciamo un esempio concreto: la carbonara.
«Ecco, la carbonara è l’esempio perfetto. È fatta con pochi ingredienti, precisi, e ognuno ha un ruolo insostituibile. Se li cambi, se aggiungi panna o togli il guanciale, non puoi più chiamarla carbonara. Puoi creare un altro piatto, magari buono, ma non è lei. Il rispetto per la tradizione passa da qui: dal riconoscere l’autenticità e non piegarla alle mode.»

Il Piatto: «Questo piatto nasce dal desiderio di raccontare il mio legame con la natura e con la cucina del territorio. Sono le Tagliatelle all’ortica con filetti di pesce persico, un incontro tra terra e lago che parla della mia Umbria più autentica.
Le tagliatelle verdi, che vedete al centro del piatto, le preparo impastando la farina con foglie fresche d’ortica: regalano un colore intenso, un profumo vegetale e quella leggera nota erbacea che le rende uniche. La sfoglia è sottile, setosa, lavorata a mano come si faceva una volta.
Alla base ho adagiato il pesce persico, un pesce delicato ma con una carne consistente, tagliato in piccoli bocconi e immerso in un fondo cremoso dalle sfumature verdi, dove si incontrano olio extravergine d’oliva, erbe fresche e un tocco di agrume. È un equilibrio di sapori puliti, precisi, in cui nulla è casuale.
Il piatto gioca sui contrasti: il verde brillante dell’ortica che domina la scena e il bianco del pesce, che illumina come una pennellata di luce. Sopra, qualche foglia essiccata e germoglio croccante chiude la composizione con una nota naturale ed elegante.
È un piatto che mi rappresenta: raffinato ma sincero, semplice negli ingredienti, complesso nell’armonia. Ogni elemento è trattato con rispetto e misura, perché credo che la vera cucina non abbia bisogno di eccessi, ma di verità nei sapori e nelle intenzioni.»