Di Francesco Dominoni

Dalla Roma degli anni Sessanta ai Caraibi, da Chianciano a Dublino. Gianfranco Locci, classe 1957, è uno di quei cuochi che hanno portato il sapore e l’anima dell’Italia nel mondo. Ha lavorato per grandi hotel, aperto ristoranti di successo in Irlanda e frequentato corsi con i migliori maestri europei. Oggi, dopo cinquant’anni di carriera, rappresenta una delle eccellenze del Made in Italy in Irlanda, e continua a studiare, sognare e insegnare con la curiosità di un Ragazzo. Prosegue il viaggio del COMITES Irlanda alla scoperta dell’eccellenza enogastronomica italiana nel cuore della terra celtica. Gianfranco Locci rappresenta una delle eccellenze italiane della ristorazione in Irlanda. La sua storia è un viaggio lungo mezzo secolo, tra sacrificio, arte e passione. Una testimonianza vivente di come il Made in Italy continui a ispirare il mondo, anche a migliaia di chilometri da casa.

Quando hai capito che la cucina sarebbe stata la tua vita?
A quindici anni. Ho iniziato come ragazzo di sala e bar tra Montefiascone e il lago di Bolsena. Poi sono entrato in cucina al ristorante Da Fabbrini ad Abbadia San Salvatore, in provincia di Siena. Lì è scattato qualcosa dentro di me. Mi sono iscritto alla scuola alberghiera di Chianciano Terme, e da quel momento non mi sono più fermato.

Com’erano i tuoi primi anni di lavoro?
Durissimi. Si iniziava alle sei e mezza del mattino, si finiva alle tre, poi si ricominciava alle quattro e mezza fino alle dieci di sera. Ma mi piaceva. Era un lavoro fatto di sacrificio, rispetto e passione.

Chi è stato la persona che ti ha cambiato la vita?
Il mio insegnante, lo Chef Marco Martini. È stato lui a indicarmi a un ristoratore dei Caraibi. Avevo 27 anni e tanta voglia di scoprire il mondo.

E così sei partito per i Caraibi.
Sì, nel 1984. Sono arrivato sull’isola di Saint Martin, colonia francese. Otto ore di lavoro, doppio salario. Per me era una vacanza-lavoro. Ho conosciuto grandi chef francesi e ho diretto un ristorante italiano in uno degli hotel più belli dell’isola. A trent’anni ho aperto il mio ristorante, Fellini, nella città di Marigot. Sono rimasto nei Caraibi fino al 1996.

Che ricordo hai di quell’esperienza?
Bellissimo. È stato un periodo felice, formativo, pieno di vita. Immagina: giocavo a tennis con un ministro del governo Bush! Era cliente del ristorante. Persona semplicissima, educata, gentile. Ma allora non c’erano i telefonini, quindi niente foto!

Dopo i Caraibi, il ritorno in Italia.
Con molta nostalgia, sì. Ma avevo bisogno di crescere. Dal 1998 ho frequentato corsi all’Istituto Etoile di Chioggia: banchettistica, pasticceria moderna, torte da forno, biscotteria, intaglio di verdure. Poi sono diventato capo cuoco al ristorante Il Punto di Chiusi Scalo, uno dei più longevi della provincia di Siena.

E poi l’Irlanda.
Nel 2007 mi è arrivata una proposta per lavorare a Youghal, vicino Cork. Ottime condizioni. Dopo qualche tempo mi sono trasferito a Dublino: lavoravo al Royal College di Nassau Street come chef pasticcere, e nello stesso tempo ho aperto una pizzeria e pasta take away a Malahide. Poi è arrivata l’occasione per aprire Terrazzo Italia nel 2011, nel Powerscourt Centre, uno dei luoghi più affascinanti d’Irlanda.
Nel 2015 ho aperto Gusto a Parkgate Street. Due esperienze bellissime.

Hai ricevuto anche riconoscimenti importanti.
Sì, nel 2013 Paolo Tulio ci ha dato 8/10 per la cucina – “Cream of the Crop”. E nel 2015 The Irish Times ci ha premiato con il miglior dolce al piatto di Dublino: il mio bread and butter pudding. È stata una grande soddisfazione.

Com’è lavorare per clienti irlandesi?
Amano i piatti classici. Le paste, i dolci, le pizze, ma anche una buona bistecca cucinata all’italiana. Il Made in Italy è sinonimo di fiducia e qualità. Qui l’Italia piace, e tanto.

Che differenza c’è tra lavorare in un hotel e in un ristorante?
Nel ristorante hai più libertà e più contatto con il cliente. In hotel, invece, c’è troppa burocrazia: per qualsiasi cambiamento serve una riunione. Io amo la cucina che parla direttamente al cliente.

Che consiglio daresti a un giovane chef che sogna di venire in Irlanda?
Di portare umiltà e pazienza. E di non smettere mai di studiare. Ogni due anni bisogna aggiornarsi. Se un giorno qualcuno ti chiamerà “Chef”, devi meritartelo, devi saper gestire la cucina a 360 gradi.
E non criticare chi non sa fare: insegna. Trasmetti con calma e rispetto. È così che si onora la nostra bandiera.

Hai ricevuto anche titoli ufficiali.
Sì. Nel 2005 sono stato nominato Maestro di Cucina dalla Federazione Cuochi Professionali, premiato a Sanremo da Carlo Re. L’anno dopo mi hanno conferito il titolo di Console dell’Arte e del Gusto. Ho partecipato anche a Linea Verde su Rai 2, al rilancio della Fiorentina, e ho vinto il Trofeo Sanchini a Chianciano. Nel 2020 ho conquistato il terzo posto al concorso del risotto al RDS di Dublino.

Dopo cinquant’anni di lavoro, hai ancora sogni nel cassetto?
Sì: insegnare cucina italiana in Messico. Lì pensano che non si possa mangiare senza tortilla… voglio insegnare che il pane è parte della nostra cultura. Ma prima andrò a studiare la cucina messicana: per insegnare bisogna prima capire ciò che si mangia.

Hai detto che la passione non ti ha mai abbandonato.
Mai. A 68 anni, e tra poco 69, ho ancora voglia di imparare. La cucina è curiosità, studio, ricerca. Non si smette mai.

Di Francesco Dominoni

In occasione della Giornata delle Forze Armate e del Combattente, si è svolta nella mattinata di martedì 4 novembre una cerimonia di profondo valore civile e patriottico nel cuore della città a Sora.
L’evento, che ogni anno unisce memoria, gratitudine e senso civico, ha visto la partecipazione di autorità civili, militari e religiose, oltre ai rappresentanti delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma e a numerosi cittadini.

Tra i presenti anche Francesco Morelli, Presidente dell’Associazione Nazionale Carabinieri, Sezione Dublino (Irlanda), che ha incontrato Domenico Cavallo, Capitano della Compagnia dei Carabinieri di Sora.
Al loro fianco erano presenti il socio ANC Sora, Pietro Cordone, il Presidente della Sezione ANC Sora, Aldo Marcellina, la socia ANC Sora, Giovanna Maria Berti, e la socia benemerita dell’Associazione Nazionale Carabinieri, Sezione Dublino (Irlanda), Giuseppa Borza.

La cerimonia ha preso il via alle ore 9:00 con l’omaggio al Monumento ai Caduti in Piazza Marco Tullio Cicerone, Carnello, dove le autorità e le rappresentanze hanno deposto una corona d’alloro in memoria di coloro che hanno sacrificato la vita per la Patria.
Alle 11:45 si è tenuto il raduno delle rappresentanze presso la Stazione dei Carabinieri, seguito da una nuova deposizione della corona in segno di riconoscenza.


Successivamente, alle 12:00, il corteo ha sfilato lungo Corso Volsci, accompagnato dalle note della banda cittadina e dal saluto caloroso della popolazione, in un clima di profonda partecipazione e rispetto.

Le celebrazioni sono poi proseguite alla Cappella dei Caduti in Piazza Alberto La Rocca, con un ulteriore momento di raccoglimento, per concludersi infine in Piazza Santa Restituta, dove si sono tenuti gli interventi ufficiali delle Autorità.

La data del 4 novembre segna un momento fondamentale della storia italiana: la fine della Prima Guerra Mondiale nel 1918, con l’entrata in vigore dell’Armistizio di Villa Giusti, che sancì la vittoria dell’Italia e il completamento del processo di unità nazionale.
In questa giornata vengono ricordati il sacrificio, il coraggio e la dedizione dei militari italiani di ogni tempo, insieme all’impegno quotidiano delle Forze Armate nella difesa della pace, della sicurezza e dei valori democratici.

In tutta Italia e anche all’estero si tengono cerimonie, deposizioni di corone e momenti di raccoglimento, con la partecipazione di istituzioni, associazioni e cittadini che mantengono vivo il legame con la patria.
Anche quest’anno, la città di Sora ha voluto rinnovare questo legame, custodendo la memoria dei caduti e trasmettendo alle nuove generazioni il senso più profondo del dovere, del servizio e dell’unità nazionale.

Di Francesco Dominoni

Ha lasciato la banca vent’anni fa per seguire la musica. Oggi, Giancarlo Migliaccio, napoletano, è uno dei buskers più riconosciuti di Dublino. La sua chitarra risuona tra Grafton Street e il lungomare di Bray, dove l’aria sa di libertà.

In questa intervista racconta la sua svolta, il valore dell’arte di strada e il diverso modo in cui l’Irlanda e l’Italia guardano agli artisti. Una storia di coraggio, talento e autentico spirito italiano, vissuto con orgoglio e riconosciuto dal pubblico d’Irlanda. L’intervista rientra nel viaggio del COMITES Irlanda alla scoperta degli Italiani che, con passione e determinazione, hanno saputo costruire in Irlanda nuove vite, nuove sfide e nuove eccellenze.

Giancarlo, da dove comincia la tua storia irlandese?
Sono arrivato in Irlanda nel 2004. Avevo un amico che lavorava come cuoco e mi ospitò all’inizio, a Duleek. Poi mi trasferii a Dublino. Venivo da un ambiente bancario, ma sentivo il bisogno di cambiare vita. Quella in banca era una prigione: contavo le ore ogni giorno. Così decisi di voltare pagina.

Come sei passato dal mestiere di cuoco alla musica?
Una sera non avevo niente da fare e presi la chitarra. Andai a suonare per strada, così, per provare. Dopo un’ora avevo raccolto trenta euro. Era più di quanto guadagnassi come cuoco. Tornai il giorno dopo, e poi ancora. Finché capii che poteva diventare il mio lavoro.

Dublino è una città che accoglie i musicisti di strada?
Assolutamente sì. A Grafton Street, dalla mattina alla sera, c’è sempre qualcuno che suona. È un luogo vivo, creativo, dove l’arte è rispettata. Certo, non mancano i problemi: tossicodipendenti, furti, meno Garda in giro rispetto a un tempo. Ma lo spirito resta forte: chi suona lo fa per passione, e il pubblico lo sente.

Hai mai avuto paura?
Sì. Ci sono situazioni in cui preferisci lasciar perdere. Non vale la pena rischiare la vita per dieci euro nel case. Ma quello che dà fastidio non sono i soldi: è l’abuso, la mancanza di rispetto. Ti nervosisce, ma impari a controllarti.

E il clima? Suonare all’aperto in Irlanda non dev’essere facile.
Il peggio è quando piove con vento: impossibile ripararsi. Ma grazie alla Corrente del Golfo il freddo non è mai insopportabile. Di solito gennaio e febbraio sono mesi difficili, poi da San Patrizio in poi si riprende. Quel weekend del 17 marzo è il più bello e anche il più redditizio: una volta feci 700 euro in due giorni.

Hai un posto preferito dove suonare?
Sì, Bray. È sul mare, a un’ora da Dublino. C’è un lungomare bellissimo, rilassante. Ci si siede, si guarda l’oceano e si canta. E lì non ci sono tossici. È il mio posto del cuore.

Dove ti vedi tra dieci anni?
Il mio sogno è viaggiare in camper e mantenere me stesso suonando. Girare il mondo con la musica. È la libertà assoluta.

Cosa cambia tra suonare in Irlanda e in Italia?
Tutto. In Irlanda ti trattano come una rockstar. Ti abbracciano, ti ringraziano, ti sorridono. In Italia, invece, c’è ancora il pregiudizio: chi suona per strada è visto come un mendicante. Una volta un signore a Napoli mi disse: “Lei mi sembra una persona perbene, come mai è qui a suonare per strada?”. Gli risposi: “Guardi, tra gli artisti di strada è difficile trovare persone disoneste. Se le cerca, vada pure nelle banche o nelle istituzioni: lì ne trova quante ne vuole”.

Cosa rappresenta per te l’Irlanda oggi?
La libertà. È il Paese che mi ha dato la possibilità di essere me stesso. Di vivere di musica, di arte, di passione. Di suonare guardando il mare, e sentirmi finalmente a casa.

Un messaggio per gli italiani che sognano di cambiare vita come te?
Non aspettate il momento perfetto. Non arriva mai. Arrivate, provate, rischiate. La vita è troppo breve per restare in un posto dove contate le ore che mancano alla fine della giornata.

Di Francesco Dominoni

DUBLINO – Continua il viaggio del COMITES IRLANDA alla scoperta degli Italiani in Irlanda.
Insegnante e formatrice multilingue, Alessandra Di Claudio ha costruito una carriera internazionale all’insegna dell’educazione e dello scambio interculturale. Con una laurea magistrale in Lingue Moderne e oltre vent’anni di esperienza tra Irlanda, Colombia e Europa, ha insegnato italiano, francese e inglese, coordinato programmi ESOL e di alfabetizzazione, e fondato Divertitaliano, l’associazione premiata con il European Language Label per il progetto innovativo del Playgroup Italiano.
Già Responsabile delle Relazioni Pubbliche del Com.It.Es Irlanda, oggi lavora come Adult Educator presso il Dublin and Dún Laoghaire ETB, promuovendo l’inclusione linguistica e sociale attraverso l’educazione. Parla cinque lingue e continua a essere una voce autorevole nella promozione della cultura italiana all’estero.

Come si può davvero massimizzare l’apprendimento linguistico vivendo in Irlanda, oggi l’unico paese anglofono dell’Unione Europea?

L’importante è non chiudersi nella propria cerchia linguistica. Bisogna cercare attivamente opportunità di interazione con irlandesi e stranieri, partecipare a eventi, attività culturali o corsi dove si parla solo inglese. Non serve essere perfetti: conta non avere timore di sbagliare. La lingua si impara ascoltando, osservando e parlando. L’Irlanda offre un contesto multiculturale ricchissimo, è un crocevia di nazionalità, e proprio da questa diversità nasce la possibilità di migliorare più rapidamente.

Per molti italiani la lingua è una barriera all’integrazione. Quanto è davvero importante conoscerla bene per vivere e lavorare qui?

È fondamentale. La lingua non è solo comunicazione: è partecipazione. Ti permette di affrontare momenti cruciali come una visita medica, un colloquio di lavoro, o una riunione con gli insegnanti dei figli. Senza padronanza linguistica ci si sente esclusi, mentre capire e farsi capire apre porte concrete, professionali, sociali e umane. Non si tratta solo di grammatica, ma di capire i codici culturali che stanno dietro alle parole.

Meglio vivere a Dublino o in un piccolo paese per migliorare l’inglese?

Dipende molto dall’indole personale. Nelle grandi città come Dublino c’è una ricchezza culturale straordinaria: puoi incontrare persone da ogni parte del mondo, e imparare non solo l’inglese ma anche nuove prospettive. Nei paesi più piccoli, invece, si vive un contatto più diretto con la comunità locale, ci si integra più facilmente nella vita quotidiana e si è quasi “costretti” a parlare inglese. Ma serve adattabilità: nei centri minori l’ambiente è più raccolto e richiede spirito di apertura e curiosità sincera.

Hai vissuto l’Irlanda dagli anni ’90 a oggi. Com’è cambiata?

È cambiata in modo radicale. Negli anni ’90 l’Irlanda era un paese ancora periferico, con un’economia fragile e una società molto legata alle tradizioni. Poi è arrivata la grande apertura internazionale, e con essa capitali, imprese e persone da tutto il mondo. Politiche come il tax break hanno attratto giganti multinazionali e hanno trasformato Dublino in un hub globale. Tuttavia, questo progresso ha avuto un prezzo: è cresciuto un certo individualismo. L’Irlanda di oggi è dinamica e cosmopolita, ma ha perso un po’ di quella semplicità comunitaria che la caratterizzava.

Ci sono differenze tra l’irlandese delle città e quello delle campagne?

Sì, e sono notevoli. L’irlandese dei villaggi rurali è spesso più rilassato, accogliente e disposto al dialogo, mentre nelle città il ritmo della vita è più frenetico e le relazioni sono più formali. Non è una regola assoluta, ma è una tendenza che noto spesso.

Parliamo del tuo lavoro con l’ETB: di cosa ti occupi esattamente?

Collaboro con l’Education and Training Board, un ente pubblico che gestisce corsi finanziati dall’Unione Europea. Mi occupo in particolare dei programmi ESOL (English for Speakers of Other Languages) e di alfabetizzazione, offrendo supporto linguistico e amministrativo agli studenti adulti. Il nostro obiettivo è favorire l’integrazione attraverso l’educazione: aiutiamo chi arriva in Irlanda a inserirsi, a comprendere il contesto sociale e a sviluppare competenze linguistiche utili per la vita quotidiana e il lavoro.

Uno dei tuoi progetti più noti è il Playgroup Italiano. Com’è nato e cosa lo ha reso speciale?

Il Playgroup Italiano nasce nel 2006 come iniziativa spontanea tra genitori italiani che volevano mantenere viva la lingua madre nei propri figli nati o cresciuti in Irlanda. È diventato presto un progetto strutturato, con attività educative e ludiche in italiano rivolte ai bambini e alle famiglie. Dopo qualche anno è stato riconosciuto con il European Language Label, come uno dei progetti linguistici più significativi in Irlanda. È stata una grande soddisfazione: abbiamo dimostrato che si può promuovere la lingua e la cultura italiana anche fuori dai confini nazionali, in modo giocoso e inclusivo.

Guardando indietro, cosa ti ha insegnato questo lungo percorso?

Mi ha insegnato che la lingua è un organismo vivo: cambia con noi, evolve con le persone che la parlano. E che l’insegnamento non è mai a senso unico, si impara tanto dagli studenti quanto loro da te. Lavorare in Irlanda mi ha mostrato quanto l’educazione linguistica possa essere uno strumento potente di integrazione, rispetto e libertà personale.

Di Francesco Dominoni

DUBLINO – Andrea Savignano, originario di Pistoia, arriva in Irlanda per la prima volta nel gennaio 2012, con l’obiettivo di imparare l’inglese. In Italia ha studiato Scienze del Turismo, completando 24 esami su 27, ma senza arrivare alla laurea: una scelta che apre altre strade, invece di chiuderle. Il suo primo impiego a Dublino è come cameriere al ristorante L’Officina di Dunne & Crescenzi, nel centro commerciale Dundrum Town Centre. Successivamente lavora come barista al Caffè Cagliostro, in Bloom Lane, sulla sponda nord della città, vicino al Millennium Bridge. Il passaggio decisivo arriva con l’ingresso al Wallace’s Taverna, ristorante e pizzeria nell’Italian Quarter affacciato sul fiume Liffey. Qui inizia come lavapiatti, ma in pochi anni compie una vera e propria scalata professionale: cameriere, supervisor, assistant manager. Poi prende una pausa: un periodo in Africa, e poi New York. Al rientro, nel 2017, entra in società nel gruppo Wallace Wine Bars, insieme all’altro socio italiano Renato Papillo.

Il gruppo, oggi, conta circa 50 dipendenti e quattro locali, Wallace’s Asti, Caffè Cagliostro, Sfuso, Wallace’s Taverna, con circa 5.000 clienti al mese. Il 95% del personale è italiano, così come il 50-60% della clientela, segno di una comunità che si riconosce e si ritrova nei luoghi che custodiscono la propria identità gastronomica. Andrea oggi lavora prevalentemente in Russell Street, al Ristorante-Pizzeria Asti, una posizione strategica a pochi passi da Croke Park, lo stadio più grande d’Irlanda, oltre 82.000 posti. «Quando ci sono i concerti arriviamo anche a 500 coperti in un giorno» racconta. I numeri parlano chiaro: Asti: 60 coperti interni, 25 esterni. Sfuso: 35 interni, 25 esterni. La Taverna: 100 interni, 40 esterni. Una crescita lenta, costante, costruita lavorando dal basso, senza scorciatoie. La storia di Andrea è una storia di adattamento, visione e appartenenza italiana nel cuore, irlandese nel passo. Continua il viaggio del COMITES Irlanda alla scoperta della comunità italiana nel Paese, un percorso fatto di storie, volti, professioni e legami culturali che raccontano l’identità in movimento degli italiani in Irlanda.

Andrea, come descriveresti la filosofia che guida i Wallace Wine Bars?
«La nostra filosofia è portare a Dublino l’autenticità dell’Italia, quella vera. Il 95% dello staff è italiano, e questo si riflette nella cucina, nell’accoglienza, nel modo in cui si lavora insieme. Ogni piatto nasce da ricette e sapori autentici, accompagnati da vini importati direttamente. Manteniamo viva la tradizione, ma non abbiamo paura di innovare. Vogliamo che chi entra qui si senta come in Italia: calore, gusto, cura. È la nostra identità e ciò che ci guida ogni giorno.»

Com’è cambiato il mondo della ristorazione negli ultimi anni?
«È cambiato molto. La gente ha meno disponibilità economica e di conseguenza va a mangiare fuori più raramente. In più, ci sono meno italiani che cercano lavoro e sono aumentati i brasiliani. Bisogna sapersi adattare e riorganizzare.»

Perché avete scelto di dare ad Asti un’identità sarda così marcata?
«L’ispirazione nasce dal fatto che in passato avevamo un socio sardo e che la maggior parte del personale è sardo. È stato naturale ricreare un ambiente autenticamente sardo, nei sapori e nell’atmosfera.»

Chi sono i vostri clienti principali?
«Ne abbiamo tre tipi: quelli legati allo stadio, i clienti abituali e i turisti. La clientela irlandese è molto generosa, lascia spesso la mancia, e apprezza davvero la cucina italiana. Durante i grandi eventi come partite di calcio gaelico o concerti, il ritmo diventa molto impegnativo: possiamo arrivare anche a 500 coperti in un giorno

Come sei diventato socio del gruppo Wallace Wine Bars?
«È stato essere al momento giusto nel posto giusto, ma soprattutto il risultato di lavoro serio e costante. Io e Renato ci siamo impegnati nel rilanciare La Taverna, che era in perdita. Abbiamo cambiato il modello di business e riportato il locale a produrre utili. Quando la proprietà ha visto il cambiamento, ci ha fatto la proposta. È stata una scelta strategica che ha premiato. Oggi siamo un punto di riferimento della cucina italiana nel cuore di Dublino.»

DUBLINO – Linguista con oltre vent’anni di esperienza nello studio del bilinguismo, già collaboratrice di Trinity College Dublin e Ulster University, Francesca La Morgia ha fondato in Irlanda l’associazione Mother Tongues. Oggi dirige il Post-Primary Languages Ireland, insegna all’Università di Bologna e presenta il suo nuovo libro La Famiglia Multilingue (Meltemi 2025), dedicato al rapporto tra lingua, identità e appartenenza nelle famiglie di oggi. Continua il viaggio del COMITES Irlanda alla scoperta delle storie, delle esperienze e delle voci che compongono la comunità italiana nel Paese, tra identità, integrazione e legami culturali che attraversano confini e generazioni.

Di Francesco Dominoni

Francesca, come mai hai deciso di dedicare un libro alle famiglie multilingue?
Cosa ti ha spinta a sviluppare questa tematica e a tradurla poi in un progetto editoriale come “La Famiglia Multilingue”?

Per diversi anni mi sono occupata di ricerca nel campo del bilinguismo e ho studiato soprattutto famiglie italiane trasferite all’estero, analizzando lo sviluppo linguistico dei bambini. Parte della mia ricerca si è concentrata sul rapporto tra l’input fornito dai genitori e la capacità dei bambini di sviluppare la lingua parlata in famiglia.

Negli anni in cui ho condotto queste ricerche ho anche fondato l’associazione Mother Tongues, che mi ha permesso di conoscere e sostenere molte famiglie nel loro percorso di bilinguismo. Parlare con loro mi ha dato l’opportunità di ascoltare storie diverse e di comprendere le dinamiche familiari legate alla trasmissione linguistica.

Con questo libro ho voluto unire la mia esperienza di consulenza nel campo del bilinguismo e le conoscenze derivate dal contatto diretto con le famiglie, insieme alle mie competenze accademiche. Ho cercato di fondere i risultati della ricerca con le storie reali e di proporre una riflessione sul vissuto di queste famiglie.

Tu vivi e lavori da anni in Irlanda. Quando sei arrivata qui e cosa ti ha colpito del rapporto che questo Paese ha con le lingue e con il concetto di bilinguismo?

In Irlanda, come in tanti altri paesi, la lingua è una questione politica e sicuramente è oggetto di dibattito in molti contesti diversi, scolastico, politico e culturale. Si parla molto di bilinguismo inglese–gaelico, e a questo si aggiungono le realtà multilingue delle famiglie che si sono trasferite in Irlanda, soprattutto negli ultimi anni. Si parla quindi sempre di più di bilinguismo, anche se molte famiglie sono in realtà trilingui, e molti bambini crescono con tre o più lingue. Uno dei vantaggi dell’Irlanda, che però può diventare anche uno svantaggio, è il fatto che la lingua dominante è l’inglese, una lingua globale e internazionale che tende a prevalere su tutte le altre lingue, incluso il gaelico, in molte situazioni.

Per questo motivo, il concetto di bilinguismo viene spesso associato alle famiglie straniere, più che ai bambini irlandesi che frequentano le scuole elementari e imparano sia inglese che gaelico.

L’Irlanda ha una storia linguistica particolare, con l’irlandese e l’inglese che convivono. Pensi che questa realtà favorisca una maggiore sensibilità verso il multilinguismo, anche nelle famiglie migranti italiane?

L’Irlanda ha sicuramente una realtà bilingue e, tra l’altro, tre lingue ufficiali, perché include anche la Irish Sign Language.
L’inglese e l’irlandese convivono nell’ambito scolastico, nella televisione e nei media, ma si trovano in un rapporto non paritario.

Non credo quindi che ci possa essere una maggiore sensibilità verso il multilinguismo quando esiste una lingua come l’inglese che spinge molte famiglie, e molte persone in generale, a darle un ruolo dominante.

Spesso questa non è una scelta consapevole, ma credo che, quando ci si confronta con realtà come quella irlandese, in cui c’è una lingua con una forte dominanza globale come l’inglese e una lingua come il gaelico, ormai quasi in via d’estinzione, il multilinguismo faccia ancora più fatica ad affermarsi, proprio perché non è già consolidato nella maggioranza del Paese.

Nel tuo libro parli delle difficoltà dei genitori nel trasmettere la propria lingua ai figli. Quali sono, secondo te, gli ostacoli più comuni che le famiglie italiane in Irlanda incontrano nel far vivere quotidianamente l’italiano in casa?

Allora, ci sono diverse difficoltà, che variano sicuramente da famiglia a famiglia, ma anche in base a diversi fattori: l’età dei genitori, l’età in cui si sono trasferiti e l’età attuale dei figli.

In generale, uno degli ostacoli più comuni è il fatto che, spesso, nelle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, i figli, anche quando sono molto piccoli, frequentano ambienti educativi in inglese dalla mattina fino al pomeriggio.
In questo modo, l’italiano non riesce ad avere abbastanza spazio nella quotidianità.

Questo rappresenta un ostacolo, perché il genitore cerca di parlare italiano nel poco tempo rimasto, e quindi l’input in italiano è sbilanciato rispetto all’inglese.
Ciò può significare che il bambino non capisca sempre subito quello che il genitore vuole dire, o che tenda a esprimersi più in inglese.
Questo può generare frustrazione e spingere il genitore stesso a parlare più inglese per farsi capire meglio, creando così un circolo difficile da interrompere.

Altri ostacoli sono i commenti e i vecchi miti che ancora circolano, come l’idea che il bilinguismo possa creare confusione.
Se a un genitore viene detto: “Devi prediligere l’inglese, l’italiano lo introdurrai dopo, perché non fa bene ai bambini essere bilingui”, anche questo diventa un fattore scoraggiante.
Il giudizio degli altri, i commenti e le osservazioni esterne possono davvero spingere i genitori a smettere di parlare la propria lingua.

A volte, l’ostacolo è anche il timore di apparire diversi, o di non integrarsi pienamente.
Alcuni genitori hanno paura che, parlando italiano, il bambino possa sentirsi escluso o non accettato a scuola o nell’ambiente sociale.
In alcuni casi, questo timore di non integrazione si trasforma nel desiderio di non trasmettere l’italiano ai figli, per farli sentire “più irlandesi”. Ma così si dimentica che un’identità solida non deve essere monolingue.

Hai osservato anche delle buone pratiche? Ci sono esempi o strategie che hai visto funzionare bene per mantenere viva la lingua d’origine in un contesto dominato dall’inglese?

Mantenere la lingua viva si basa su un presupposto fondamentale: utilizzarla in modo spontaneo e quotidiano e condividerla all’interno della famiglia ogni giorno.

I presupposti per lo sviluppo linguistico dei bambini bilingue sono che siano esposti a due lingue e che abbiano la possibilità di usarle entrambe.
Mantenere viva la lingua significa, in sostanza, mantenere aperto il dialogo in quella lingua.

Anche se può sembrare naturale e spontaneo, vediamo sempre più spesso che non tutte le famiglie hanno il tempo o l’opportunità di dedicarsi al dialogo con i figli.
Quindi, parlando di consigli o strategie, direi che alla base di tutto c’è il dialogo, sin dall’inizio, unito alla capacità di adattarlo agli interessi e all’età dei bambini.

Il dialogo può ruotare intorno a un gioco di costruzioni con un bambino di quattro anni, e poi evolversi in una conversazione su un fumetto disegnato insieme durante gli anni della scuola elementare, e così via.

Per chi ha bambini piccoli, e ne ha la possibilità, un consiglio che do spesso è leggere ad alta voce ai figli finché sono disposti ad ascoltare.
La lingua dei libri è infatti diversa da quella del parlato quotidiano: contribuisce allo sviluppo linguistico, offre modelli alternativi, un lessico più ricco e scenari nuovi che non emergono nella vita di tutti i giorni, dando così al bambino la possibilità di esplorare e ampliare il proprio mondo linguistico.

Nel libro affronti il tema della “lingua come oggetto di discriminazione”. Spieghi come spesso le lingue minoritarie vengano associate a status sociali o origini etniche considerate “inferiori”. Pensi che questo accada anche in Irlanda? E lo senti di più nei genitori o nei figli?

La lingua, come dicevo, è un fatto politico e può essere utilizzata come elemento identitario, di inclusione o di esclusione. Questo vale per tutte le lingue e i dialetti che esistono.

Quando parliamo di lingue minoritarie, come ad esempio il gaelico, per molto tempo questa lingua è stata associata a una vita rurale, semplice, legata alla campagna e a uno status sociale inferiore.

Lo stesso accade con le lingue straniere parlate in Irlanda: alcune vengono considerate molto importanti, come il francese, mentre alter, meno conosciute dalla maggioranza, sono viste come poco utili.

Anche nelle scuole elementari mi è capitato di incontrare insegnanti che dicevano a un bambino: “Come sei fortunato a parlare spagnolo!” mentre di fronte c’era un bambino che conosceva la lingua swahili, al quale però nessuno diceva la stessa cosa.
Questo dimostra che esistono gerarchie linguistiche di cui spesso non ci rendiamo conto o di cui non si parla abbastanza.

Per quanto riguarda la lingua italiana, mi è capitato spesso di sentire commenti molto positivi, legati al fatto che molti irlandesi hanno viaggiato in Italia o conoscono persone italiane.
Molto spesso, quindi, la cultura e la lingua italiana vengono associate a un immaginario quasi idilliaco.

Tuttavia, se andiamo a guardare la storia dei primi italiani arrivati in Irlanda, emergono anche stereotipi.
Ed è possibile che, per evitare quegli stereotipi o per distaccarsi da quell’immaginario, qualcuno finisca per allontanarsi anche dal desiderio di usare la lingua.

Parli anche di “attrito linguistico” quella perdita graduale della lingua d’origine negli adolescenti bilingui. In base alla tua esperienza, è un fenomeno più forte tra i figli di prima generazione o lo ritrovi anche tra i ragazzi cresciuti in famiglie italiane ormai stabilizzate in Irlanda?

L’attrito linguistico, cioè la perdita graduale di una lingua conosciuta, può avvenire a qualsiasi età.
Succede anche negli adulti che si sono trasferiti dall’Italia in Irlanda e che, con il passare del tempo, iniziano a perdere alcuni elementi della lingua, come ad esempio la spontaneità nel trovare la parola giusta.

Per quanto riguarda i ragazzi di prima generazione, invece, si riscontra spesso una lingua “incompleta”, in un certo senso: dal punto di vista grammaticale e dello sviluppo linguistico, la lingua esiste, ma manca qualcosa che la renda pienamente naturale o fluida.

Nel libro emerge spesso il legame tra lingua e identità. Quanto pesa, secondo te, l’aspetto emotivo e affettivo nel mantenimento della lingua madre?

Dal punto di vista dei genitori, ogni scelta nella crescita dei figli ha sicuramente una valenza emotiva.
Direi che, nella maggioranza dei casi, quando i genitori si sono rivolti a me, era perché si trovavano in uno stato emotivo di ansia, preoccupazione e timore per il futuro dei figli, ma anche per il rapporto instaurato con loro.
Spesso, infatti, non comprendevano cosa stesse accadendo all’interno della famiglia.

Il desiderio di mantenere o di eliminare una lingua dalla propria vita è sempre legato a fattori emotivi e affettivi.

E come si può aiutare un ragazzo a sentirsi “intero” tra due lingue e due culture?

In questo libro parlo molto della famiglia come del nucleo in cui i figli nascono e crescono. Ovviamente la famiglia ricopre un ruolo fondamentale, ma anche la scuola e il contesto sociale hanno un enorme impatto nell’aiutare i ragazzi a sentirsi interi tra due lingue e due culture.

Alla base di tutto c’è il concetto che “interezza” non significa essere una cosa sola, cioè appartenere a una sola lingua o una sola cultura.
Quando due culture, due modi di vedere il mondo e due lingue si uniscono all’interno di una stessa persona, questo porta a un’identità non divisa né incerta, ma ricca di prospettive diverse.

E questo non dovrebbe essere un concetto difficile da comprendere in Irlanda, dove da sempre ci si confronta con due lingue e due culture.
La cultura legata alla lingua gaelica, infatti, e ciò che essa trasmette e comunica, non è traducibile né paragonabile a ciò che trasmette la lingua inglese.

Quindi il concetto di identità plurilingue e pluriculturale non dovrebbe essere qualcosa di nuovo in Irlanda.
Il modo per sostenere i ragazzi, durante l’infanzia e l’adolescenza, nel comprendere la complessità dell’identità, potrebbe partire proprio da questo: dal riconoscere che viviamo tutti in una realtà irlandese fatta di due lingue e due culture.

Come docente e come fondatrice di Mother Tongues, hai incontrato moltissime famiglie. C’è un episodio o una storia che ti ha particolarmente colpita e che rappresenta bene lo spirito del tuo libro?

Più che una storia in particolare, direi che è stato nell’ultimo anno, con Mother Tongues, che ho incontrato diverse coppie online, e quello che mi ha colpito di più è stato vedere genitori con opinioni discordanti su quale strategia linguistica seguire.

Ciò che mi ha colpito davvero è stato notare come il genitore che parlava la lingua straniera fosse spesso timoroso di usarla, per paura di creare confusione o problemi, mentre l’altro genitore, spesso irlandese, cercava invece di incoraggiare il partner, che fosse italiano, polacco o di un’altra nazionalità, a parlare la propria lingua.

Questo per me è stato illuminante, perché molto spesso, durante gli incontri pubblici, i genitori partecipavano da soli o parlava solo uno dei due.
Invece, in questi colloqui individuali di coppia, ho avuto modo di entrare davvero nella complessità di ciò che significa, per una famiglia, prendere decisioni linguistiche che avranno ripercussioni su molte altre scelte, relazionali e familiari, sia per i figli che per i genitori.

Credo che vedere, all’interno di una famiglia unita, pareri completamente diversi su come crescere i figli bilingue rappresenti proprio lo spirito del libro: non esiste un unico modo, né una sola persona che guidi le strategie linguistiche familiari.
Ogni membro della famiglia ha il suo ruolo, e ciò che fa e come si comporta ha un impatto diretto sulla politica linguistica familiare.

Infine, se dovessi dare un consiglio a un genitore italiano che cresce un figlio bilingue in Irlanda, quale sarebbe? Un piccolo gesto quotidiano, semplice ma efficace, per non perdere la propria lingua e identità.

Un consiglio iniziale sarebbe quello di non scoraggiarsi, se si ha il desiderio di trasmettere la lingua italiana ai propri figli: si può fare, lo si può fare utilizzando la lingua il più possibile senza preoccuparsi di chi ci circonda, senza preoccuparsi di cosa potrebbero pensare le persone intorno a noi, e quindi di creare un ambiente in cui l’italiano è presente per dimostrare ai figli che è una lingua viva e rilevante per la loro vita. E se dovessi identificare un piccolo gesto quotidiano, io direi ai genitori di trovare loro stessi quello che per loro può essere veramente un momento, non qualunque, ma che sia veramente quotidiano, in cui l’italiano è la lingua dominante e quindi ha un posto speciale nel dialogo quotidiano familiare. Un esempio può essere il momento della lettura di una fiaba prima di andare a dormire, può essere la preparazione di un pasto insieme… Non importa quanto tempo si abbia a disposizione o quale attività si stia facendo, ma il consiglio è quello di mantenere questa routine negli anni e, nel momento in cui i figli magari rispondono in inglese, non perdere di vista il proprio obiettivo e non scoraggiarsi.

DUBLINOUn progetto nato nel 2021 in piena pandemia diventa un caso di successo tra qualità, innovazione e radici italiane. La perdita del posto alla Ulster Bank diventa l’occasione per ricominciare da zero. Davide Masi decide di puntare sulla sua vera passione: la cucina italiana. Con il marchio La Tradizione, porta in Irlanda la genuinità delle salsicce artigianali italiane, prodotte con carne locale e spezie d’eccellenza Made in Italy. Da Clondalkin nasce un piccolo laboratorio che oggi porta il gusto italiano nei migliori negozi selezionati d’Irlanda. Continua il viaggio del COMITES Irlanda, questa volta nel cuore dell’imprenditoria gastronomica italiana che sta conquistando l’Isola di Smeraldo.

Di Francesco Dominoni

Davide, come nasce l’idea de La Tradizione?
Tutto comincia in modo semplice, quasi spontaneo. Due amici italiani, da anni in Irlanda, si ritrovano per preparare salsicce “alla maniera di casa”, per sé, le proprie famiglie e qualche amico. È diventato presto un piccolo rito, una tradizione familiare che ogni volta si faceva più grande.

Quando avete capito che quell’idea poteva trasformarsi in un vero progetto imprenditoriale?
A ogni incontro la richiesta cresceva. Tutti volevano portarsi a casa un po’ di quelle salsicce. Dopo anni di prove, ricette sperimentate e giudizi severi da parte di amici e parenti, ci siamo detti: “Perché non renderle disponibili a tutti?”. Così nel 2021, proprio durante la pandemia, abbiamo fondato La Tradizione Ltd.

Una scelta coraggiosa, in un periodo difficile. Cosa vi ha spinto?
La pandemia ci ha costretto tutti a fermarci, a riflettere su ciò che conta davvero. Per me è stato un momento di svolta. Avevo perso il mio lavoro fisso alla Ulster Bank, ma ho trovato la forza di reinventarmi. È nata così l’idea di creare qualcosa di autentico, che unisse le nostre radici italiane con la qualità irlandese.

Cosa rende speciali le vostre salsicce rispetto ad altre?
Sono frutto di antiche ricette di famiglia, evolute nel tempo. Usiamo solo carne suina irlandese al 100%, un equilibrio perfetto tra magro e grasso, condimenti naturali e nessun conservante. Le nostre salsicce hanno un alto contenuto di proteine, sono povere di grassi e sprigionano tutto il sapore delle vere salsicce artigianali italiane.

Dove vengono prodotte oggi?
Il laboratorio si trova a Clondalkin, nella zona sud-ovest di Dublino, appena fuori dal raccordo anulare. È lì che tutto prende forma, con la stessa cura e passione di quando facevamo le prime prove a casa.

Ti aspettavi un simile riscontro?
Onestamente no. Quando siamo partiti, era solo una passione. Oggi invece stiamo pianificando di ampliare la produzione e introdurre nuovi prodotti. La risposta del pubblico è stata straordinaria.

Raccontaci qualcosa di te. Come sei arrivato in Irlanda?
Sono originario di Roma. Sono arrivato a Dublino più di 25 anni fa per un corso di inglese. Dovevo restare quattro mesi… ma il piano non ha funzionato, come dico sempre scherzando. L’Irlanda mi ha adottato, e ora è parte della mia storia.

Hai un socio in questa avventura. Chi è?
Sì, il mio amico e socio Marco Nuti. Condividiamo la stessa visione: portare la qualità e l’autenticità italiana sulle tavole irlandesi, con un prodotto semplice, genuino e fatto con passione.

In fondo, il vostro nome, “La Tradizione”,  riassume tutto questo.
Esatto. È ciò che ci guida ogni giorno: la tradizione come punto di partenza, ma con lo sguardo rivolto al futuro. Unire l’anima italiana con l’eccellenza irlandese: questa è la nostra ricetta del successo.

Guardando al futuro, quali sono i prossimi passi de “La Tradizione”?
Stiamo lavorando per ampliare la gamma dei nostri prodotti. In particolare, vogliamo introdurre due grandi protagonisti della norcineria italiana: la ’nduja e i salami stagionati.

La ’nduja è un prodotto tipico molto particolare. Come pensate di realizzarla qui in Irlanda?
La ’nduja è un salume tipico calabrese, originario di Spilinga, in provincia di Vibo Valentia. È una salsiccia spalmabile e per la pizza, dal sapore intenso e piccante, fatta con carne di maiale, parti grasse come lardo, pancetta e guanciale, e un’abbondante quantità di peperoncino calabrese dolce e piccante.
Vogliamo riprodurre quella stessa autenticità, mantenendo la base della carne irlandese ma importando il peperoncino e le spezie direttamente dall’Italia.

Anche per i salami stagionati seguirete la stessa filosofia?
Sì, assolutamente. Utilizzeremo sempre carne di suino irlandese, ma la lavorazione, la concia e la stagionatura seguiranno le antiche ricette italiane. Il nostro obiettivo è portare in Irlanda il gusto autentico dei salumi italiani, preparati però con una materia prima locale di eccellente qualità.

In poche parole, una tradizione italiana che parla con accento irlandese.
Esattamente! È questo il nostro motto. L’Italia nel cuore, l’Irlanda nelle mani.

Dove trovare i prodotti de “La Tradizione” in Irlanda

I prodotti artigianali de La Tradizione sono disponibili nei migliori negozi gourmet e macellerie selezionate in tutta Irlanda:

  1. Robbie’s, 3 Drummartin Rd, Kilmacud West, Dublin 14
  2. Barnhill Stores, 11–12 Barnhill Road, Dalkey, Dublin
  3. Ardkeen Quality Food Store, Dunmore Road, Farranshoneen, Waterford
  4. Get Fresh, Unit 6, Rosemount Shopping Centre, Marian Road, Rathfarnham, Dublin 14
  5. Fallon & Byrne, 12–17 Exchequer Street, Dublin 2
  6. Ennis Butchers, 463 South Circular Rd, Rialto, Dublin 8
  7. Corrigan’s Butchers, 90 Drumcondra Road Upper, Drumcondra, Dublin 9
  8. Basilico, Main Street, Oranmore, Co. Galway
  9. Manning’s, Laharan West, Ballylickey, Co. Cork
  10. Cavistons, 58/59 Glasthule Rd, Glenageary, Glasthule, Co. Dublin.

DUBLINO – È il 15 agosto del 2003 quando un giovane studente modenese, in vacanza a Dublino, decide di entrare per caso nel campus di un’università. Quel gesto improvvisato gli cambia la vita. Oggi, Marco Monopoli è Senior Lecturer al Royal College of Surgeons in Ireland (RCSI) e una figura di riferimento internazionale nella nanotecnologia. La sua è la storia di come un istinto può diventare destino. Continua il viaggio del COMITES Irlanda tra gli Italiani che hanno scelto di costruire la propria vita in terra celtica..

di Francesco Dominoni

Marco, come comincia il tuo primo incontro con l’Irlanda?
«Era Ferragosto del 2003. Ero a Dublino in vacanza con un amico, studiavo Biotecnologie Farmaceutiche a Modena. Faceva caldo in Italia e avevo voglia di scoprire un Paese nuovo. A un certo punto ho pensato: “Perché non andare a vedere com’è un’università qui?”. Così sono andato all’University College Dublin, senza appuntamento, senza conoscere nessuno. Solo curiosità e voglia di capire».

E cosa succede quel giorno?
«Mi perdo nel campus e finisco davanti al Conway Institute, un centro di ricerca biomedica. Entro, parlo con la receptionist e le spiego che sono uno studente italiano in cerca di un laboratorio per la tesi. Lei chiama un professore, che scende dopo pochi minuti. Mi fa un colloquio informale, lì sul momento, e alla fine mi dice: “Se vuoi, puoi venire sei mesi nel mio laboratorio”. Io resto di sasso».

Tutto questo… il 15 agosto?
«Sì! In Italia era tutto chiuso per Ferragosto, e io mi ritrovavo con un’occasione che non avevo nemmeno cercato. Il professore mi scrive il suo indirizzo email su un foglio di carta. Un gesto semplice, ma pieno di fiducia. Non avevo mai visto nulla di simile».

Quando torni in Italia, cosa fai?
«Gli scrivo. Poche settimane dopo mi conferma tutto per email, con tanto di borsa di studio. A gennaio 2004 faccio le valigie e parto. Quello che doveva essere un tirocinio di sei mesi si trasforma in molto di più: un dottorato di ricerca di quattro anni, poi un post-doc, un’esperienza nell’industria farmaceutica a Oxford e, infine, il mio ruolo attuale come Senior Lecturer al Royal College of Surgeons in Ireland».

Su cosa lavori oggi?
«Mi occupo di nanotossicologia e nanomedicina. In pratica studiamo come i nanomateriali interagiscono con il corpo umano e come possiamo usarli per trasportare farmaci in modo più mirato. Collaboro anche con l’Istituto Mario Negri di Milano per un progetto europeo chiamato “Potential”. È un modo per mantenere un legame forte con l’Italia».

C’è anche un lato personale in questa avventura, vero?
«Certo. Una carriera all’estero è anche una scelta di vita. La mia fidanzata di allora, oggi mia moglie, è italiana. A un certo punto abbiamo dovuto decidere: Spagna o Irlanda. Abbiamo scelto Dublino. Oggi abbiamo due figli, di 12 e 8 anni. L’Irlanda è diventata casa».

Cosa ti ha colpito di più del sistema irlandese?
«La fiducia. In Italia spesso devi dimostrare tutto prima di ottenere qualcosa. Qui, invece, ti danno subito un’opportunità e poi ti chiedono di dimostrare che te la meriti. È un approccio completamente diverso, che valorizza la motivazione e la curiosità».

E oggi, come vivi il tuo ruolo di docente e ricercatore?
«Con passione. Insegno Chimica dei Medicinali agli studenti di medicina, fisioterapia e Advanced Therapeutic Technologies, e continuo a fare ricerca. L’università è un luogo dove impari ogni giorno, non solo dove insegni».

Ti capita mai di ripensare a quel Ferragosto?
«Sì, spesso. Penso a quanto sia stata casuale quella scelta, e a quanto mi abbia cambiato la vita. La scienza, come la vita, è anche serendipità: trovare qualcosa di prezioso mentre cerchi altro».

La tua storia è anche il racconto di un’Italia che crede nei suoi talenti.
«Assolutamente. Io mi sento italiano, e credo che il talento italiano abbia tantissimo da offrire all’Europa. Basta avere il coraggio di provarci. A volte il futuro comincia da un gesto semplice, come bussare a una porta sconosciuta. O da un foglio di carta con scritto un indirizzo email».

DUBLINO – Mercoledì 15 ottobre, alle 18:30, la sala Pavilion dell’Istituto Italiano di Cultura è gremita. L’incontro, organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di Dublino, è stato moderato dalla Presidente del COMITES Irlanda, Emiliana Capurro, che ha guidato il dialogo con competenza e sensibilità, dopo aver approfondito i contenuti del volume. La partecipazione del COMITES, chiamato a coordinare l’evento in tempi molto ristretti, ha rappresentato un esempio concreto di collaborazione istituzionale e di presenza attiva della comunità italiana nelle iniziative culturali promosse in Irlanda. L’atmosfera è viva, curiosa, densa di attesa. Si presenta “La famiglia multilingue” (Meltemi 2025) di Francesca La Morgia, linguista italiana da anni impegnata nello studio del bilinguismo e nella promozione delle lingue d’origine. È un tema che tocca da vicino migliaia di famiglie italiane in Irlanda e nel mondo: la lingua come eredità, identità, affetto.

Di Francesco Dominoni

Nel contesto della Settimana della Lingua Italiana nel Mondo 2025, l’incontro si apre alla presenza dell’Ambasciatore Nicola Faganello, accompagnato dalla moglie Franziska Faganello-Feldhoff, e della nuova direttrice dell’Istituto, Michela Linda Magrì, al suo primo incontro ufficiale con la comunità italiana. A fare gli onori di casa è lo stesso Ambasciatore, che sottolinea con un sorriso la familiarità del legame: «Conosco la direttrice da diverso tempo – racconta – ci siamo incontrati a Seul e a Los Angeles».

La Morgia, fondatrice dell’associazione Mother Tongues, intreccia nel suo volume ricerca accademica, esperienze personali e testimonianze di famiglie reali. Analizza come il linguaggio diventi un ponte invisibile tra generazioni e culture, ma anche una sfida quotidiana per chi cresce tra idiomi diversi.

«Come italiana che vive in Irlanda, trovo particolarmente significativo il modo in cui l’autrice unisce scienza e vita vissuta per raccontare le opportunità del multilinguismo intergenerazionale» spiega Emiliana Capurro, presidente del COMITES Irlanda, che aggiunge:  «È un grande onore partecipare a questa discussione dedicata a un’opera che affronta con rigore e sensibilità le dinamiche linguistiche e affettive delle famiglie plurilingui di oggi».

Segue Luca Mancinelli, vicepresidente del COMITES, con un ricordo: «Avendo un nonno di madrelingua inglese e uno italiano, ho avuto due versioni diverse della Seconda Guerra Mondiale». Due lingue, due prospettive, un’unica identità.

Il dibattito si anima. Andrea Piccin, primario alla Mater Private Hospital, sottolinea il valore dell’italiano anche nel sistema educativo irlandese: «Sapere l’italiano è un vantaggio: nel Leaving Cert, l’esame finale delle scuole superiori, può valere fino a cento punti. Aggiungo che quanto è stato fatto dal COMITES è oro colato».

Poi la voce di Alessandra Di Claudio, da oltre venticinque anni in Irlanda, madre di una famiglia che parla tre lingue: italiano, inglese e francese: «La molla che mi ha fatto scattare è stata quando ho capito quanto fosse importante facilitare la comunicazione tra i miei figli e i nonni».

La serata si chiude con un brindisi. Ma resta nell’aria un pensiero comune, semplice e profondo: la lingua non è solo un mezzo per parlare, è un modo per appartenere.

«Ho stretto la mano all’ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, a Temple Bar, nel cuore di Dublino. Era circondato dalle guardie del corpo, e quando mi ha visto si è diretto verso di me. Con tutta la sicurezza personale intorno, è venuto a stringermi la mano» racconta, con un sorriso ancora pieno di stupore, lo chef italiano Luca Rosati.

È il 29 settembre 2006 quando il quotidiano britannico Daily Mail lo immortala mentre stringe la mano all’ex presidente americano. Era l’anno della Ryder Cup al “K Club” di Straffan, nella contea di Kildare, e Clinton, in quei giorni, partecipava a un summit nella prestigiosa Farmleigh House, a Phoenix Park, insieme all’allora primo ministro irlandese Bertie Ahern.

Continua il viaggio del COMITES Irlanda all’interno della comunità italiana, alla scoperta di storie autentiche, volti e percorsi che raccontano il contributo prezioso degli italiani in Irlanda. Un racconto fatto di esperienze professionali, talento e passione, che testimonia la ricchezza di una presenza viva e radicata nel tessuto culturale e sociale del Paese.

Di Francesco Dominoni

DUBLINO – Nato a Terni nel 1978, Luca Rosati porta dentro di sé la passione per la cucina sin da bambino. A trasmettergliela è la madre, che lui definisce “una grande cuoca” e che influenza profondamente la sua scelta di frequentare la scuola alberghiera, dove alla teoria si affianca una solida formazione pratica. Nel 1997 ottiene la specializzazione di cuoco, un diploma che segna l’inizio di un percorso professionale inarrestabile.

Lavora in Sardegna, sulla Riviera Romagnola e in Corsica, affinando la tecnica e l’istinto. Poi attraversa l’oceano e vola negli Stati Uniti, in Colorado, precisamente a Vail, nella contea di Eagle, a circa 150 chilometri da Denver, nel cuore delle Rocky Mountains. Qui trova casa al ristorante italiano Campo dei Fiori, un locale raffinato frequentato da celebrità di Hollywood e amanti della vera cucina italiana.

Una carriera costruita con passione, disciplina e curiosità, che continua a raccontare la storia di un cuoco italiano capace di portare, ovunque vada, l’autenticità e l’anima della cucina italiana nel mondo.

Nel 2006 Luca Rosati compie uno stage formativo presso il celebre ristorante Patrick Guilbaud, in Upper Merrion Street a Dublino, un’istituzione dell’alta cucina irlandese, fondata nel 1981 e situata accanto al prestigioso Merrion Hotel. È qui che il giovane chef italiano affina la sua tecnica e si misura con gli standard più elevati della gastronomia francese contemporanea.

Negli anni successivi, Rosati consolida la sua esperienza lavorando in alcuni dei ristoranti più rinomati di Dublino: da Gigi, a Ranelagh, di Giorgio Casari, fino a Il Vicoletto, in Crow Street, nel cuore pulsante di Temple Bar, e al ristorante Bellagio nel quartiere residenziale di Terenure.
Diventa poi capo chef per quasi tre anni al ristorante Rosa Madre, una delle insegne più apprezzate del centro di Dublino, dove lascia il segno con la sua cucina elegante e di carattere.

Rientrato in Italia, apre la sua Osteria Marsilea sulle rive del lago di Piediluco, uno dei luoghi più suggestivi dell’Umbria, in provincia di Terni. Un locale stagionale dedicato alle specialità di pesce di lago, dove Rosati unisce tradizione e creatività in un ambiente raccolto e autentico.

Oggi, Luca Rosati è tornato a Dublino e lavora presso il prestigioso ristorante francese La Maison, al 15 di Castle Market (Dublin 2), un indirizzo storico che da oltre vent’anni rappresenta un punto di riferimento della cucina francese classica e contemporanea nella capitale irlandese.

Luca, dici spesso che la cucina italiana è talmente vasta che nemmeno noi italiani la conosciamo davvero. Cosa vuoi dire?
«È proprio così. La nostra cucina è talmente ricca e diversificata che, paradossalmente, non la conosciamo fino in fondo nemmeno noi che ci lavoriamo da una vita. Ogni paese, ogni borgo, custodisce la propria cultura gastronomica, un piatto che racconta una storia, una tradizione, un’identità. È un patrimonio immenso, che merita di essere riscoperto e valorizzato».

Eppure, all’estero si continua a identificare l’Italia con pochi piatti simbolo…
«Sì, purtroppo è così. All’estero, ma anche da noi, si finisce spesso per promuovere solo una manciata di ricette: la carbonara, l’amatriciana, la lasagna… come se l’Italia finisse lì. Ma la nostra cucina è molto di più: è un mosaico di sapori, saperi e tradizioni che cambiano da una vallata all’altra. Ogni territorio ha un’anima diversa, e questa è la sua vera forza».

Ti capita spesso di vedere piatti italiani reinterpretati o “rivisitati”. Che ne pensi?
«Sinceramente, mi dà fastidio. Capisco la voglia di innovare, ma c’è un confine da non superare. Quando un piatto viene stravolto, perde la sua identità. La cucina italiana non ha bisogno di essere reinventata, ha bisogno di essere rispettata. Ogni piatto nasce da un equilibrio preciso, costruito nel tempo. Alterarlo significa tradirlo».

Facciamo un esempio concreto: la carbonara.
«Ecco, la carbonara è l’esempio perfetto. È fatta con pochi ingredienti, precisi, e ognuno ha un ruolo insostituibile. Se li cambi, se aggiungi panna o togli il guanciale, non puoi più chiamarla carbonara. Puoi creare un altro piatto, magari buono, ma non è lei. Il rispetto per la tradizione passa da qui: dal riconoscere l’autenticità e non piegarla alle mode.»

Il Piatto: «Questo piatto nasce dal desiderio di raccontare il mio legame con la natura e con la cucina del territorio. Sono le Tagliatelle all’ortica con filetti di pesce persico, un incontro tra terra e lago che parla della mia Umbria più autentica.

Le tagliatelle verdi, che vedete al centro del piatto, le preparo impastando la farina con foglie fresche d’ortica: regalano un colore intenso, un profumo vegetale e quella leggera nota erbacea che le rende uniche. La sfoglia è sottile, setosa, lavorata a mano come si faceva una volta.

Alla base ho adagiato il pesce persico, un pesce delicato ma con una carne consistente, tagliato in piccoli bocconi e immerso in un fondo cremoso dalle sfumature verdi, dove si incontrano olio extravergine d’oliva, erbe fresche e un tocco di agrume. È un equilibrio di sapori puliti, precisi, in cui nulla è casuale.

Il piatto gioca sui contrasti: il verde brillante dell’ortica che domina la scena e il bianco del pesce, che illumina come una pennellata di luce. Sopra, qualche foglia essiccata e germoglio croccante chiude la composizione con una nota naturale ed elegante.

È un piatto che mi rappresenta: raffinato ma sincero, semplice negli ingredienti, complesso nell’armonia. Ogni elemento è trattato con rispetto e misura, perché credo che la vera cucina non abbia bisogno di eccessi, ma di verità nei sapori e nelle intenzioni.»