Di Francesco Dominoni

Dalla Roma degli anni Sessanta ai Caraibi, da Chianciano a Dublino. Gianfranco Locci, classe 1957, è uno di quei cuochi che hanno portato il sapore e l’anima dell’Italia nel mondo. Ha lavorato per grandi hotel, aperto ristoranti di successo in Irlanda e frequentato corsi con i migliori maestri europei. Oggi, dopo cinquant’anni di carriera, rappresenta una delle eccellenze del Made in Italy in Irlanda, e continua a studiare, sognare e insegnare con la curiosità di un Ragazzo. Prosegue il viaggio del COMITES Irlanda alla scoperta dell’eccellenza enogastronomica italiana nel cuore della terra celtica. Gianfranco Locci rappresenta una delle eccellenze italiane della ristorazione in Irlanda. La sua storia è un viaggio lungo mezzo secolo, tra sacrificio, arte e passione. Una testimonianza vivente di come il Made in Italy continui a ispirare il mondo, anche a migliaia di chilometri da casa.

Quando hai capito che la cucina sarebbe stata la tua vita?
A quindici anni. Ho iniziato come ragazzo di sala e bar tra Montefiascone e il lago di Bolsena. Poi sono entrato in cucina al ristorante Da Fabbrini ad Abbadia San Salvatore, in provincia di Siena. Lì è scattato qualcosa dentro di me. Mi sono iscritto alla scuola alberghiera di Chianciano Terme, e da quel momento non mi sono più fermato.

Com’erano i tuoi primi anni di lavoro?
Durissimi. Si iniziava alle sei e mezza del mattino, si finiva alle tre, poi si ricominciava alle quattro e mezza fino alle dieci di sera. Ma mi piaceva. Era un lavoro fatto di sacrificio, rispetto e passione.

Chi è stato la persona che ti ha cambiato la vita?
Il mio insegnante, lo Chef Marco Martini. È stato lui a indicarmi a un ristoratore dei Caraibi. Avevo 27 anni e tanta voglia di scoprire il mondo.

E così sei partito per i Caraibi.
Sì, nel 1984. Sono arrivato sull’isola di Saint Martin, colonia francese. Otto ore di lavoro, doppio salario. Per me era una vacanza-lavoro. Ho conosciuto grandi chef francesi e ho diretto un ristorante italiano in uno degli hotel più belli dell’isola. A trent’anni ho aperto il mio ristorante, Fellini, nella città di Marigot. Sono rimasto nei Caraibi fino al 1996.

Che ricordo hai di quell’esperienza?
Bellissimo. È stato un periodo felice, formativo, pieno di vita. Immagina: giocavo a tennis con un ministro del governo Bush! Era cliente del ristorante. Persona semplicissima, educata, gentile. Ma allora non c’erano i telefonini, quindi niente foto!

Dopo i Caraibi, il ritorno in Italia.
Con molta nostalgia, sì. Ma avevo bisogno di crescere. Dal 1998 ho frequentato corsi all’Istituto Etoile di Chioggia: banchettistica, pasticceria moderna, torte da forno, biscotteria, intaglio di verdure. Poi sono diventato capo cuoco al ristorante Il Punto di Chiusi Scalo, uno dei più longevi della provincia di Siena.

E poi l’Irlanda.
Nel 2007 mi è arrivata una proposta per lavorare a Youghal, vicino Cork. Ottime condizioni. Dopo qualche tempo mi sono trasferito a Dublino: lavoravo al Royal College di Nassau Street come chef pasticcere, e nello stesso tempo ho aperto una pizzeria e pasta take away a Malahide. Poi è arrivata l’occasione per aprire Terrazzo Italia nel 2011, nel Powerscourt Centre, uno dei luoghi più affascinanti d’Irlanda.
Nel 2015 ho aperto Gusto a Parkgate Street. Due esperienze bellissime.

Hai ricevuto anche riconoscimenti importanti.
Sì, nel 2013 Paolo Tulio ci ha dato 8/10 per la cucina – “Cream of the Crop”. E nel 2015 The Irish Times ci ha premiato con il miglior dolce al piatto di Dublino: il mio bread and butter pudding. È stata una grande soddisfazione.

Com’è lavorare per clienti irlandesi?
Amano i piatti classici. Le paste, i dolci, le pizze, ma anche una buona bistecca cucinata all’italiana. Il Made in Italy è sinonimo di fiducia e qualità. Qui l’Italia piace, e tanto.

Che differenza c’è tra lavorare in un hotel e in un ristorante?
Nel ristorante hai più libertà e più contatto con il cliente. In hotel, invece, c’è troppa burocrazia: per qualsiasi cambiamento serve una riunione. Io amo la cucina che parla direttamente al cliente.

Che consiglio daresti a un giovane chef che sogna di venire in Irlanda?
Di portare umiltà e pazienza. E di non smettere mai di studiare. Ogni due anni bisogna aggiornarsi. Se un giorno qualcuno ti chiamerà “Chef”, devi meritartelo, devi saper gestire la cucina a 360 gradi.
E non criticare chi non sa fare: insegna. Trasmetti con calma e rispetto. È così che si onora la nostra bandiera.

Hai ricevuto anche titoli ufficiali.
Sì. Nel 2005 sono stato nominato Maestro di Cucina dalla Federazione Cuochi Professionali, premiato a Sanremo da Carlo Re. L’anno dopo mi hanno conferito il titolo di Console dell’Arte e del Gusto. Ho partecipato anche a Linea Verde su Rai 2, al rilancio della Fiorentina, e ho vinto il Trofeo Sanchini a Chianciano. Nel 2020 ho conquistato il terzo posto al concorso del risotto al RDS di Dublino.

Dopo cinquant’anni di lavoro, hai ancora sogni nel cassetto?
Sì: insegnare cucina italiana in Messico. Lì pensano che non si possa mangiare senza tortilla… voglio insegnare che il pane è parte della nostra cultura. Ma prima andrò a studiare la cucina messicana: per insegnare bisogna prima capire ciò che si mangia.

Hai detto che la passione non ti ha mai abbandonato.
Mai. A 68 anni, e tra poco 69, ho ancora voglia di imparare. La cucina è curiosità, studio, ricerca. Non si smette mai.