di Francesco Dominoni
scrivi meglio questo catenaccio:
Dal 2000 porta a Dublino salumi, formaggi, paste artigianali e dolci della tradizione. «La vera cucina italiana la fanno in pochi. Bisogna selezionare, spiegare, educare. E smettere di chiamare “italiano” ciò che italiano non è».
Bagnasco partecipa all’evento del 17 novembre 2025 nella suggestiva Thomas Prior Hall, serata della decima edizione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, dove chef, esperti e istituzioni esplorano il valore delle erbe selvatiche nella gastronomia italiana. L’iniziativa è promossa dalla Camera di Commercio Italiana di Dublino con Ambasciata d’Italia, Istituto Italiano di Cultura, ENIT e ITA – Italian Trade Agency.
Da quanto tempo vieni in Irlanda?
Arrivo in Irlanda dal 2000. Comincio ai tempi del Botticelli e dell’Unicorn, e da lì continuo con costanza. Mi fermo solo durante il Covid, quando il mondo si blocca. Appena la situazione si normalizza, riparto: nuovi clienti, nuovi prodotti, un’offerta più completa. Prima salumi e formaggi; oggi anche paste particolari, ripiene, dolci come le cialde per i cannoli siciliani.
Sono più di vent’anni che fai avanti e indietro tra Italia e Irlanda. Che cosa è cambiato?
È cambiato il consumo. Una volta contava la quantità. Oggi cresce la ricerca della qualità. Se hai prodotti autentici, unici, trovi una clientela selezionata. E noto che anche gli irlandesi si stanno abituando ai sapori italiani.
Quanto pesa il fatto che ora viaggino di più, complice Ryanair?
Pesa tantissimo. Molti scoprono l’Italia e tornano a casa con un palato più esigente. Una carbonara mangiata a Roma non è la stessa di una carbonara servita qui. Qui — ancora oggi — qualcuno ci mette la panna. In Italia è un sacrilegio.
Sei considerato uno dei protagonisti della nicchia enogastronomica in Irlanda. Ti ritrovi in questa definizione?
La nicchia è la mia dimensione. Non voglio fare quantità: quando rincorri i grandi numeri, perdi la qualità. E la qualità ha senso solo se arriva a persone che la capiscono. Se selezioni la clientela giusta, non hai problemi.
Dublino si espande, i ristoranti aumentano. Quanti, secondo te, fanno vera cucina italiana?
Di ristoranti autentici ce ne sono sei o sette. Gli altri propongono un “italiano” adattato al gusto irlandese. La risposta classica è: “Qui vogliono mangiare così”. Ma allora non è più cucina italiana. A quel punto togli il nome.
Serve più educazione alimentare?
Molta di più. Manifestazioni come questa sono utilissime, ma dovrebbero essere più frequenti e più settoriali. Eventi enormi, con migliaia di espositori, confondono: il visitatore esce senza capire se un prodotto viene dal Trentino o dalla Sicilia.
Se invece si lavora per regioni o per tipologie, l’impatto è maggiore. La gente impara davvero.
A Dublino servirebbero più eventi dedicati al prodotto italiano?
Sì: quattro o cinque all’anno, ciascuno focalizzato su un tema. Una volta i formaggi, una volta i salumi, poi le paste, poi i vini. Qui c’è un potenziale enorme.
Anche nel vino?
Soprattutto. Qui il vino si beve come acqua fresca: un sorso e via. Per noi italiani è impensabile. Il vino richiede rispetto, conoscenza, racconto.
Stasera si è parlato del Radicchio di Treviso. Il messaggio è arrivato?
In parte sì. Il pubblico ha capito che è un prodotto unico, legato a un territorio preciso. Però manca ancora il “come si usa”.
Io, per esempio, avrei proposto un abbinamento semplice e geniale: Bagna Cauda e Radicchio di Treviso. Due regioni che si incontrano. La gente avrebbe capito tutto al primo assaggio.
Il problema è che poi, a casa, difficilmente replicano certe preparazioni…
Ed è proprio questo il punto: assaggiano, apprezzano, ma non riproducono. Serve più educazione, più continuità, più eventi. Solo così il prodotto italiano può davvero mettere radici.