DUBLINO – Linguista con oltre vent’anni di esperienza nello studio del bilinguismo, già collaboratrice di Trinity College Dublin e Ulster University, Francesca La Morgia ha fondato in Irlanda l’associazione Mother Tongues. Oggi dirige il Post-Primary Languages Ireland, insegna all’Università di Bologna e presenta il suo nuovo libro La Famiglia Multilingue (Meltemi 2025), dedicato al rapporto tra lingua, identità e appartenenza nelle famiglie di oggi. Continua il viaggio del COMITES Irlanda alla scoperta delle storie, delle esperienze e delle voci che compongono la comunità italiana nel Paese, tra identità, integrazione e legami culturali che attraversano confini e generazioni.

Di Francesco Dominoni

Francesca, come mai hai deciso di dedicare un libro alle famiglie multilingue?
Cosa ti ha spinta a sviluppare questa tematica e a tradurla poi in un progetto editoriale come “La Famiglia Multilingue”?

Per diversi anni mi sono occupata di ricerca nel campo del bilinguismo e ho studiato soprattutto famiglie italiane trasferite all’estero, analizzando lo sviluppo linguistico dei bambini. Parte della mia ricerca si è concentrata sul rapporto tra l’input fornito dai genitori e la capacità dei bambini di sviluppare la lingua parlata in famiglia.

Negli anni in cui ho condotto queste ricerche ho anche fondato l’associazione Mother Tongues, che mi ha permesso di conoscere e sostenere molte famiglie nel loro percorso di bilinguismo. Parlare con loro mi ha dato l’opportunità di ascoltare storie diverse e di comprendere le dinamiche familiari legate alla trasmissione linguistica.

Con questo libro ho voluto unire la mia esperienza di consulenza nel campo del bilinguismo e le conoscenze derivate dal contatto diretto con le famiglie, insieme alle mie competenze accademiche. Ho cercato di fondere i risultati della ricerca con le storie reali e di proporre una riflessione sul vissuto di queste famiglie.

Tu vivi e lavori da anni in Irlanda. Quando sei arrivata qui e cosa ti ha colpito del rapporto che questo Paese ha con le lingue e con il concetto di bilinguismo?

In Irlanda, come in tanti altri paesi, la lingua è una questione politica e sicuramente è oggetto di dibattito in molti contesti diversi, scolastico, politico e culturale. Si parla molto di bilinguismo inglese–gaelico, e a questo si aggiungono le realtà multilingue delle famiglie che si sono trasferite in Irlanda, soprattutto negli ultimi anni. Si parla quindi sempre di più di bilinguismo, anche se molte famiglie sono in realtà trilingui, e molti bambini crescono con tre o più lingue. Uno dei vantaggi dell’Irlanda, che però può diventare anche uno svantaggio, è il fatto che la lingua dominante è l’inglese, una lingua globale e internazionale che tende a prevalere su tutte le altre lingue, incluso il gaelico, in molte situazioni.

Per questo motivo, il concetto di bilinguismo viene spesso associato alle famiglie straniere, più che ai bambini irlandesi che frequentano le scuole elementari e imparano sia inglese che gaelico.

L’Irlanda ha una storia linguistica particolare, con l’irlandese e l’inglese che convivono. Pensi che questa realtà favorisca una maggiore sensibilità verso il multilinguismo, anche nelle famiglie migranti italiane?

L’Irlanda ha sicuramente una realtà bilingue e, tra l’altro, tre lingue ufficiali, perché include anche la Irish Sign Language.
L’inglese e l’irlandese convivono nell’ambito scolastico, nella televisione e nei media, ma si trovano in un rapporto non paritario.

Non credo quindi che ci possa essere una maggiore sensibilità verso il multilinguismo quando esiste una lingua come l’inglese che spinge molte famiglie, e molte persone in generale, a darle un ruolo dominante.

Spesso questa non è una scelta consapevole, ma credo che, quando ci si confronta con realtà come quella irlandese, in cui c’è una lingua con una forte dominanza globale come l’inglese e una lingua come il gaelico, ormai quasi in via d’estinzione, il multilinguismo faccia ancora più fatica ad affermarsi, proprio perché non è già consolidato nella maggioranza del Paese.

Nel tuo libro parli delle difficoltà dei genitori nel trasmettere la propria lingua ai figli. Quali sono, secondo te, gli ostacoli più comuni che le famiglie italiane in Irlanda incontrano nel far vivere quotidianamente l’italiano in casa?

Allora, ci sono diverse difficoltà, che variano sicuramente da famiglia a famiglia, ma anche in base a diversi fattori: l’età dei genitori, l’età in cui si sono trasferiti e l’età attuale dei figli.

In generale, uno degli ostacoli più comuni è il fatto che, spesso, nelle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, i figli, anche quando sono molto piccoli, frequentano ambienti educativi in inglese dalla mattina fino al pomeriggio.
In questo modo, l’italiano non riesce ad avere abbastanza spazio nella quotidianità.

Questo rappresenta un ostacolo, perché il genitore cerca di parlare italiano nel poco tempo rimasto, e quindi l’input in italiano è sbilanciato rispetto all’inglese.
Ciò può significare che il bambino non capisca sempre subito quello che il genitore vuole dire, o che tenda a esprimersi più in inglese.
Questo può generare frustrazione e spingere il genitore stesso a parlare più inglese per farsi capire meglio, creando così un circolo difficile da interrompere.

Altri ostacoli sono i commenti e i vecchi miti che ancora circolano, come l’idea che il bilinguismo possa creare confusione.
Se a un genitore viene detto: “Devi prediligere l’inglese, l’italiano lo introdurrai dopo, perché non fa bene ai bambini essere bilingui”, anche questo diventa un fattore scoraggiante.
Il giudizio degli altri, i commenti e le osservazioni esterne possono davvero spingere i genitori a smettere di parlare la propria lingua.

A volte, l’ostacolo è anche il timore di apparire diversi, o di non integrarsi pienamente.
Alcuni genitori hanno paura che, parlando italiano, il bambino possa sentirsi escluso o non accettato a scuola o nell’ambiente sociale.
In alcuni casi, questo timore di non integrazione si trasforma nel desiderio di non trasmettere l’italiano ai figli, per farli sentire “più irlandesi”. Ma così si dimentica che un’identità solida non deve essere monolingue.

Hai osservato anche delle buone pratiche? Ci sono esempi o strategie che hai visto funzionare bene per mantenere viva la lingua d’origine in un contesto dominato dall’inglese?

Mantenere la lingua viva si basa su un presupposto fondamentale: utilizzarla in modo spontaneo e quotidiano e condividerla all’interno della famiglia ogni giorno.

I presupposti per lo sviluppo linguistico dei bambini bilingue sono che siano esposti a due lingue e che abbiano la possibilità di usarle entrambe.
Mantenere viva la lingua significa, in sostanza, mantenere aperto il dialogo in quella lingua.

Anche se può sembrare naturale e spontaneo, vediamo sempre più spesso che non tutte le famiglie hanno il tempo o l’opportunità di dedicarsi al dialogo con i figli.
Quindi, parlando di consigli o strategie, direi che alla base di tutto c’è il dialogo, sin dall’inizio, unito alla capacità di adattarlo agli interessi e all’età dei bambini.

Il dialogo può ruotare intorno a un gioco di costruzioni con un bambino di quattro anni, e poi evolversi in una conversazione su un fumetto disegnato insieme durante gli anni della scuola elementare, e così via.

Per chi ha bambini piccoli, e ne ha la possibilità, un consiglio che do spesso è leggere ad alta voce ai figli finché sono disposti ad ascoltare.
La lingua dei libri è infatti diversa da quella del parlato quotidiano: contribuisce allo sviluppo linguistico, offre modelli alternativi, un lessico più ricco e scenari nuovi che non emergono nella vita di tutti i giorni, dando così al bambino la possibilità di esplorare e ampliare il proprio mondo linguistico.

Nel libro affronti il tema della “lingua come oggetto di discriminazione”. Spieghi come spesso le lingue minoritarie vengano associate a status sociali o origini etniche considerate “inferiori”. Pensi che questo accada anche in Irlanda? E lo senti di più nei genitori o nei figli?

La lingua, come dicevo, è un fatto politico e può essere utilizzata come elemento identitario, di inclusione o di esclusione. Questo vale per tutte le lingue e i dialetti che esistono.

Quando parliamo di lingue minoritarie, come ad esempio il gaelico, per molto tempo questa lingua è stata associata a una vita rurale, semplice, legata alla campagna e a uno status sociale inferiore.

Lo stesso accade con le lingue straniere parlate in Irlanda: alcune vengono considerate molto importanti, come il francese, mentre alter, meno conosciute dalla maggioranza, sono viste come poco utili.

Anche nelle scuole elementari mi è capitato di incontrare insegnanti che dicevano a un bambino: “Come sei fortunato a parlare spagnolo!” mentre di fronte c’era un bambino che conosceva la lingua swahili, al quale però nessuno diceva la stessa cosa.
Questo dimostra che esistono gerarchie linguistiche di cui spesso non ci rendiamo conto o di cui non si parla abbastanza.

Per quanto riguarda la lingua italiana, mi è capitato spesso di sentire commenti molto positivi, legati al fatto che molti irlandesi hanno viaggiato in Italia o conoscono persone italiane.
Molto spesso, quindi, la cultura e la lingua italiana vengono associate a un immaginario quasi idilliaco.

Tuttavia, se andiamo a guardare la storia dei primi italiani arrivati in Irlanda, emergono anche stereotipi.
Ed è possibile che, per evitare quegli stereotipi o per distaccarsi da quell’immaginario, qualcuno finisca per allontanarsi anche dal desiderio di usare la lingua.

Parli anche di “attrito linguistico” quella perdita graduale della lingua d’origine negli adolescenti bilingui. In base alla tua esperienza, è un fenomeno più forte tra i figli di prima generazione o lo ritrovi anche tra i ragazzi cresciuti in famiglie italiane ormai stabilizzate in Irlanda?

L’attrito linguistico, cioè la perdita graduale di una lingua conosciuta, può avvenire a qualsiasi età.
Succede anche negli adulti che si sono trasferiti dall’Italia in Irlanda e che, con il passare del tempo, iniziano a perdere alcuni elementi della lingua, come ad esempio la spontaneità nel trovare la parola giusta.

Per quanto riguarda i ragazzi di prima generazione, invece, si riscontra spesso una lingua “incompleta”, in un certo senso: dal punto di vista grammaticale e dello sviluppo linguistico, la lingua esiste, ma manca qualcosa che la renda pienamente naturale o fluida.

Nel libro emerge spesso il legame tra lingua e identità. Quanto pesa, secondo te, l’aspetto emotivo e affettivo nel mantenimento della lingua madre?

Dal punto di vista dei genitori, ogni scelta nella crescita dei figli ha sicuramente una valenza emotiva.
Direi che, nella maggioranza dei casi, quando i genitori si sono rivolti a me, era perché si trovavano in uno stato emotivo di ansia, preoccupazione e timore per il futuro dei figli, ma anche per il rapporto instaurato con loro.
Spesso, infatti, non comprendevano cosa stesse accadendo all’interno della famiglia.

Il desiderio di mantenere o di eliminare una lingua dalla propria vita è sempre legato a fattori emotivi e affettivi.

E come si può aiutare un ragazzo a sentirsi “intero” tra due lingue e due culture?

In questo libro parlo molto della famiglia come del nucleo in cui i figli nascono e crescono. Ovviamente la famiglia ricopre un ruolo fondamentale, ma anche la scuola e il contesto sociale hanno un enorme impatto nell’aiutare i ragazzi a sentirsi interi tra due lingue e due culture.

Alla base di tutto c’è il concetto che “interezza” non significa essere una cosa sola, cioè appartenere a una sola lingua o una sola cultura.
Quando due culture, due modi di vedere il mondo e due lingue si uniscono all’interno di una stessa persona, questo porta a un’identità non divisa né incerta, ma ricca di prospettive diverse.

E questo non dovrebbe essere un concetto difficile da comprendere in Irlanda, dove da sempre ci si confronta con due lingue e due culture.
La cultura legata alla lingua gaelica, infatti, e ciò che essa trasmette e comunica, non è traducibile né paragonabile a ciò che trasmette la lingua inglese.

Quindi il concetto di identità plurilingue e pluriculturale non dovrebbe essere qualcosa di nuovo in Irlanda.
Il modo per sostenere i ragazzi, durante l’infanzia e l’adolescenza, nel comprendere la complessità dell’identità, potrebbe partire proprio da questo: dal riconoscere che viviamo tutti in una realtà irlandese fatta di due lingue e due culture.

Come docente e come fondatrice di Mother Tongues, hai incontrato moltissime famiglie. C’è un episodio o una storia che ti ha particolarmente colpita e che rappresenta bene lo spirito del tuo libro?

Più che una storia in particolare, direi che è stato nell’ultimo anno, con Mother Tongues, che ho incontrato diverse coppie online, e quello che mi ha colpito di più è stato vedere genitori con opinioni discordanti su quale strategia linguistica seguire.

Ciò che mi ha colpito davvero è stato notare come il genitore che parlava la lingua straniera fosse spesso timoroso di usarla, per paura di creare confusione o problemi, mentre l’altro genitore, spesso irlandese, cercava invece di incoraggiare il partner, che fosse italiano, polacco o di un’altra nazionalità, a parlare la propria lingua.

Questo per me è stato illuminante, perché molto spesso, durante gli incontri pubblici, i genitori partecipavano da soli o parlava solo uno dei due.
Invece, in questi colloqui individuali di coppia, ho avuto modo di entrare davvero nella complessità di ciò che significa, per una famiglia, prendere decisioni linguistiche che avranno ripercussioni su molte altre scelte, relazionali e familiari, sia per i figli che per i genitori.

Credo che vedere, all’interno di una famiglia unita, pareri completamente diversi su come crescere i figli bilingue rappresenti proprio lo spirito del libro: non esiste un unico modo, né una sola persona che guidi le strategie linguistiche familiari.
Ogni membro della famiglia ha il suo ruolo, e ciò che fa e come si comporta ha un impatto diretto sulla politica linguistica familiare.

Infine, se dovessi dare un consiglio a un genitore italiano che cresce un figlio bilingue in Irlanda, quale sarebbe? Un piccolo gesto quotidiano, semplice ma efficace, per non perdere la propria lingua e identità.

Un consiglio iniziale sarebbe quello di non scoraggiarsi, se si ha il desiderio di trasmettere la lingua italiana ai propri figli: si può fare, lo si può fare utilizzando la lingua il più possibile senza preoccuparsi di chi ci circonda, senza preoccuparsi di cosa potrebbero pensare le persone intorno a noi, e quindi di creare un ambiente in cui l’italiano è presente per dimostrare ai figli che è una lingua viva e rilevante per la loro vita. E se dovessi identificare un piccolo gesto quotidiano, io direi ai genitori di trovare loro stessi quello che per loro può essere veramente un momento, non qualunque, ma che sia veramente quotidiano, in cui l’italiano è la lingua dominante e quindi ha un posto speciale nel dialogo quotidiano familiare. Un esempio può essere il momento della lettura di una fiaba prima di andare a dormire, può essere la preparazione di un pasto insieme… Non importa quanto tempo si abbia a disposizione o quale attività si stia facendo, ma il consiglio è quello di mantenere questa routine negli anni e, nel momento in cui i figli magari rispondono in inglese, non perdere di vista il proprio obiettivo e non scoraggiarsi.